Moana

Diretto da

“Mi piace sempre affidare parti agli indigeni. Sono attori eccellenti, soprattutto perché non recitano affatto e sono proprio le cose fatte naturalmente ed inconsapevolmente che risultano le più importanti sullo schermo. Ecco anche la ragione per cui i grandi interpreti sembrano quasi non recitare; ma nessuno di loro potrebbe essere tanto incosciente delle cose esteriori quanto un bambino, un animale. Ora, uno di questi uomini cosiddetti primitivi, di queste isole del Sud, è così poco influenzato dalla presenza della camera che si muove con la stessa naturalezza di un bambino o di un piccolo gatto.” (Robert J. Flaherty)

Nel 1926, dopo l'esperienza dei film sperimentali, Flaherty tornò al documentario, sostenuto da una grossa società come la Paramount. L'idea di girare Moana nacque insieme all'amico Frederick J. O'Brien. I due si fermarono nel villaggio di Safune, nell'isola Savaii (Samoa occidentali), alla ricerca di ambienti primitivi interessanti dal punto di vista etnologico. Anche in questo caso (come già nel precedente Nanook), Flaherty rifiutò la messa in scena di una storia già organizzata, privilegiando la realtà suggestiva del luogo, secondo l'idea che un intreccio troppo definito, avrebbe impedito alla macchina da presa la libertà della descrizione.

Nonostante il film sia incentrato (come sarà anche nei lungometraggi successivi) sulla storia d'amore tra due giovani maori, proprio durante le scene d'amore, l'utilizzo della macchina da presa evita, innovativamente, qualsiasi enfasi, rendendo i protagonisti soggetti colti nei momenti del loro sviluppo vitale.

Flaherty vuole dimostrare che anche una comunità come quella dei maori è in grado di possedere una tradizione culturale, prodotto dell'uso della ragione e non solo dell'impulso, come si tendeva a pensare delle comunità primitive. La regia descrive le capacità dei maori: la loro abilità nella pesca, nell'organizzazione del raccolto, nell'artigianato, nel commercio. Allo stesso modo, si sofferma sull'aspetto esteriore, sulle costruzioni, le arti figurative, i giochi. 

L'universo naturale è documentato da una macchina da presa sempre in movimento e da uno sguardo che si posa su tutto, che registra le vite di questi abitanti per quello che sono: esistenze autentiche, piene di bisogni naturali, di necessità primarie, con le lotte e gli sforzi per la sopravvivenza.

Titolo tradotto
L'ultimo Eden
Genere
Documentario
Paese
Stati Uniti d'America
Anno
1926
Durata
85'
Casa di produzione
Players-Lasky Co.
Approfondimento

A proposito di Moana

«Il nome di Robert Flaherty (1884-1951) non è molto conosciuto tra i cinefili del XXI secolo, tanto che alcuni sembra non lo abbiano mai sentito. Questo oblio, contrasta con la reputazione che Flaherty aveva al momento della sua morte, cinquant'anni fa. John Grierson, il suo discepolo più devoto ed influente, senza esitazione lo definì “uno dei cinque grandi innovatori della storia del cinema” (gli altri erano Méliès, Griffith, Sennett e Eisenstein). Herman Weinberg lo descrisse come “quel poeta, quel Melville del cinema”. John Huston, che lo adorava, scrisse in occasione della morte di Flaherty che “percorse tutto il suo cammino e tutto vide”. Tuttavia le critiche erano comparse fin dagli anni in cui era ancora in vita. Venne accusato, e non senza una punta di verità, di un romanticismo degno di Rousseau e Wordsworth, fatto di un uso del documentario che tendeva a riscoprire l'idillio perduto della primitiva esistenza. Con il progredire del cinema etnografico, in gran parte sotto l'influenza di Flaherty, dai primi tempi amatoriali alle nuove discipline scientifiche, fu sempre più indicato come un manipolatore della realtà. La gente era scioccata dal fatto che l'indimenticabile sequenza della costruzione dell'igloo in Nanook fosse stata ottenuta dalla ripetizione più e più volte delle fasi di costruzione. Graham Greene, tra i suoi primi detrattori, sostenne che “Man of Aran non tenta neanche di descrivere in modo veritiero uno stile di vita. Agli abitanti è stato insegnato come cacciare gli squali, così che il signor Flaherty potesse disporre di sequenze drammatiche”. Forse è un fatto inevitabile nella storia dell'arte che alla deificazione segua l'oblio temporaneo o permanente. La carriera di Flaherty fu compromessa e resa problematica come quella di Stroheim, Eisenstein o Wells. In ventisei anni, egli realizzò solo quattro lungometraggi: Nanook, Moana, Man of Aran e Louisiana story. Degli altri, White Shadows of the South Sea passò nelle mani di Woody Van Dyke e di Hollywood; Tabù venne piegato al gusto melodrammatico di F. W. Murnau, Elephant Boy venne trascinato fuori dall'India e rimodellato nelle foreste di cartapesta e tra le quinte degli studi di Denham (“nessun altro elefante o riproduzione in gomma”, scrisse uno scettico Green, “potrebbe sostituire ciò che Flaherty aveva perso in India – il senso della narrazione”). Per essere corretti nei confronti dei suoi produttori, va detto che Flaherty non era un regista facile da gestire. La celebrata, costante pazienza nell'osservazione dei segreti nei suoi soggetti, faceva di lui un genio, certamente, ma aveva un alto costo economico. Nel momento in cui veniva stregato da una ambientazione, Flaherty sarebbe rimasto Ii, mentre i mesi diventavano anni. Se la pazienza di Alexander Korda si esaurì con Elephant Boy, fu solo la fortuna che fece sì che il produttore di Man of Aran, Michael Balcon fosse più tollerante e gestisse autonomamente le pressioni dei soci, mentre Flaherty, in tutta calma, risiedeva nell'isola, senza inviare nulla se non i conti spesa, che arrivarono a triplicare il budget iniziale.

Per Grierson e la scuola documentaristica britannica e americana, Flaherty era l'innovatore supremo. Fu proprio per lui che Grierson coniò la parola “documentario”. E Flaherty fu, per ragioni pratiche, l'ispiratore del movimento documentaristico britannico, la cui influenza è stata universale e avrebbe definito l'evoluzione dei migliori documentari televisivi su entrambe le sponde dell'Atlantico. L'impatto di Nanook of the North, secondo le parole di Grierson, fu di “introdurre metodo e attenzione negli sguardi fugaci della macchina da presa dei primi documentari di viaggi e dare modello estetico e significato al dato”. Flaherty portò un'interpretazione e una risposta soggettiva alla fredda obiettività dell'attualità. Le richieste di questo nuovo approccio stimolarono l'innovazione tecnica. Il fascino di ciò che vedeva lo incitava ad una nuova libertà di movimento della telecamera (considerate come la sua telecamera anticipi le mani degli artigiani in Industrial Britain). Collaborare con Bell e Howell gli permise di sperimentare telecamere leggere e, in Man of Aran, una nuova telecamera automatica. Per esplorare ancora più intimamente i visi, in Moana utilizzo da pioniere la pellicola pancromatica. Tutti i documentaristi del suo tempo lo seguirono fino alla fine. Ma con il passare degli anni, l'innovazione perde inevitabilmente forza, perché diventa parte della pratica comune. Tornando a Flaherty, cinquant'anni dopo la sua morte non siamo colpiti tanto dalle sue scoperte tecniche, quanto dalla qualità dei suoi film. Come i suoi contemporanei, possiamo ancora essere impressionati dall'acutezza della sua visione. Forse, cosi sostenne Graham Greene, fu spesso distratto dall'ossessione dell'immagine: “Quanto erano pretenziose e stancanti quelle immagini che si stagliavano all'orizzonte, quanto era priva di senso quella magnifica fotografia di tempesta dopo tempesta”. Forse. Oggi ciò che cattura e attira la nostra attenzione non sono i grandi panorami, ma l'osservazione minuta di Flaherty di una mano o di una faccia di un anonimo vasaio o di un pescatore intenti nelle loro mediocri attività quotidiane. Ispirare l'immagine, forse la sua qualità più significativa e perdurante, è il maestoso umanesimo di Flaherty malgrado l'umanesimo stesso sia una qualità che non è più considerata come lo era trenta o più anni fa.

Nella vita privata sembra che Flaherty fosse un uomo gentile, espansivo, generoso e ospitale. Nei pressi del set, lui e la moglie Frances, la collaboratrice di tutta di una vita, affittavano una grande proprietà e tenevano la casa aperta a chiunque fosse di passaggio. Da qualche parte, John Huston ricordava quanto si vergognò quella notte, a New York, quando lui e Flaherty furono avvicinati da un passante ubriaco e disperato. Huston, come chiunque altro di noi, semplicemente avrebbe voluto fuggire, ma Bob mise l'uomo su un taxi, lo portò a casa e si prese cura di lui. La generosità umana pervade tutti i film di Flaherty. Nanook, Moana e Tabù devono la loro vitalità persistente, la qualità che li rende una volta che li abbiamo visti come vecchi amici, all'intensità dell'amore che lo stesso Flaherty nutriva per loro. In ogni suo film, il fascino della lotta per la sopravvivenza che l'uomo combatte contro una natura, imprevedibile nelle sue ricompense e nelle sue punizioni, subisce l'intensità dei suoi sentimenti, del suo coinvolgimento con i personaggi. Flaherty li onora, li rispetta, li ama tutti. Non li opprime mai, né li vede come semplici oggetti. Non è un caso che i più amati e memorabili personaggi, diventati parte della nostra vita, siano i ragazzini – l'incantevole Sabu di Elephant Boy, lo scintillante giovane Joseph Boudreaux di Louisiana Story, il personaggio taciturno di Man of Aran. Flaherty ha penetrato il loro mondo e ha condiviso la scoperta di un universo.

John Grierson è riuscito negli ultimi anni a lasciarci dei non-sense auto giustificativi, ma alla fine ha sempre scritto bene di Flaherty e ci ha fatto uno dei migliori resoconti delle qualità uniche di questo maestro che ancora oggi ci colpiscono: “Flaherty ci riporta alle origini di tutta l'analisi, dove sono le stagioni, dove i fiori non solo crescono, ma sono intrecciati nei capelli, dove la gente raccoglie, o combatte, per avere i frutti della terra, e mangia bene e sacrifica le libagioni cerimoniali agli Dei e danza in segno di ringraziamento; dove la differenza tra un uomo e l'animale selvatico è quasi nulla; dove le tempeste vanno e vengono e sono solamente un grandioso spettacolo fugace e i bambini sono una garanzia permanente che il tempo è senza tempo e il futuro senza troppo dolore”».

(David Robinson)

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