A arca dos Zo’è

Diretto da

Gli indios Waiãpi, che hanno conosciuto gli Zo'è attraverso il video, decidono di recarsi nella loro terra e di documentare, con la telecamera, gli usi e le tradizioni di questo popolo.

L'incontro con gli Zo'é permette ai Waiãpi di rivivere, una volta tornati al villaggio, le tradizioni degli antenati.

I Waiãpi, in cambio, informano gli Zo'è sui pericoli del mondo del Bianco che si avvicina, che gruppi ancora isolati come gli Zo'è sono ansiosi di incontrare.

Titolo tradotto
[L'arca degli Zo'è]
Genere
Documentario
Paese
Brasile
Anno
1993
Durata
22'
Casa di produzione
Vídeo nas Aldeias (Video in the Villages)
Lingue
Portoghese
Approfondimento

A proposito di A arca dos Zo’è

Immagini dall’Amazzonia [CinemAmbiente 2003] di Silvia Zaccaria

L'Amazzonia, la distruzione e la speranza, raccontate con gli occhi dei suoi più antichi abitanti: i popoli indigeni. Grazie al rivoluzionario progetto ideato dal documentarista brasiliano Vincent Carelli, Video nas aldeias ("il video nei villaggi"), la televisione e la telecamera fanno il loro ingresso nei villaggi amazzonici: l'una per permettere agli indios di conoscere come essi sono ritratti dal bianco e per comunicare con i loro parenti indigeni da un capo all'altro del Paese; l'altra perché gli indios "addomestichino", attraverso l'immagine, il bianco e gli offrano finalmente una visione attuale ed emica, cioè “dal di dentro”, di se stessi.

E sono proprio i capi tradizionali a comprendere il potere della scatola magica e dell'occhio "acchiappa-ombre". Sfatata la paura di perdere l'anima, la sfida adesso è ad armi pari. I leader indigeni più anziani spronano i loro nipoti e le future generazioni ad iniziarsi all'uso del video. Imparare a riprendere ormai, è importante almeno quanto essere sciamani, guerrieri, professori e avvocati del proprio popolo.

Oppure montano veri e propri "spot pubblicitari" in cui presentano con orgoglio la loro cultura ed esibiscono la loro forza davanti alle telecamere, consci che c'è l'uomo bianco dall'altra parte che li guarda.

Per questo la telecamera si è rivelata negli ultimi anni un'arma efficace e irrinunciabile nelle battaglie che i popoli indigeni conducono per la difesa delle loro terre e dei loro modi di vita; ha permesso di documentare e denunciare le catastrofi che hanno di volta in volta sconvolto il loro ambiente naturale e culturale: costruzione di strade, dighe, invasioni di cercatori d'oro, di tagliatori di legname, di piccoli coloni senza terra e di imprese multinazionali.

Ma, nello stesso tempo, ha portato la cultura degli indios Zo'è, ai Waiãpi, che hanno riscoperto le proprie radici confrontandosi con un popolo a loro affine, ma in uno stadio ancora non avanzato di contatto con il bianco; agli Xavantes, le lotte dei Maculi e le immagini dei Waimiri-Atroari, ritenuti quasi estinti; il messaggio dei bambini del Parco indigeno dello Xingù, al mondo.

Ha permesso ai giovani registi indigeni di soffermarsi sulla cultura tradizionale del loro popolo, di rivivere ed attualizzare riti e cerimonie che rischiano di scomparire o di rimanere solo come ricordo di un passato mitico, di rivalutare il ruolo degli anziani nei villaggi sempre più incalzati dalla modernità, depositari di saperi unici, ma afflitti oggi da problemi che poi sono comuni a tutte le culture della terra: la solitudine, l'indifferenza, la nostalgia di un mondo che non esiste più.

Gli indios riflettono, attraverso il video, su se stessi, sulla loro società e sui loro costumi. Riflettono sulla loro immagine e su quella degli altri popoli. Infine, riflettono su quella che il bianco ha costruito e su quella che adesso è opportuno offrirgli, per confutare pregiudizi secolari, stereotipi e visioni candide e sognanti.

Per il Bianco, Indio è solo quello che va in giro nudo e ornato di piume. Bell'impatto vederlo con l'orologio, il cellulare e la telecamera. Qualcuno obietterà: "Ma possiamo ancora definirlo tale?"

Sì, e forse più che in passato, perché ora lo afferma con orgoglio, coscienza e determinazione.

Perché ora conosce le due facce della medaglia e sa che il bianco non porta solo male; che alcuni suoi strumenti come la scrittura, il computer e il video rappresentano oggi quelle armi essenziali che gli permettono di sopravvivere conservando la propria identità.

Amazzonia, però, non significa solo popoli indigeni.

Chi non ricorda Chico Mendes, il leader dell'Alleanza dei Popoli della Foresta, ucciso 15 anni fa?

Chico Mendes era un seringueiro, un raccoglitore di caucciù, un non-indio che aveva compreso che difendere la foresta significa innanzitutto difendere i diritti e i modi di vita dei popoli che in essa abitano da tempi immemorabili. E che tale difesa era possibile soltanto attraverso un'alleanza di gruppi umani tradizionalmente ostili, schierati gli uni contro gli altri in una vera e propria "guerra tra poveri" voluta da interessi economici di latifondisti locali senza scrupoli e di imprese multinazionali.

La sua lotta contro la distruzione della foresta e per la difesa dei popoli tradizionali, sul finire degli anni '80, aveva posto l'Amazzonia al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica internazionale, sconvolta dall'avanzata incontrollata della deforestazione e dal genocidio dei popoli indigeni. Per questo, anche grazie alla mobilitazione di personalità di rilievo come il cantante inglese Sting, era stato possibile ridurre il numero degli incendi e bloccare la realizzazione di mega progetti come la diga di Altamira, sul fiume Xingù, che avrebbero avuto impatti socio-ambientali disastrosi.

Con Chico Mendes moriva il portavoce del movimento per la difesa dell'Amazzonia e per una gestione sostenibile delle sue risorse, ma altri avrebbero continuato la sua lotta.

Il fatto che Marina Silva, anche lei ex-seringueira, seguace e amica personale di Chico Mendes, sia l'attuale ministro dell'Ambiente nel Brasile di Lula, ne è una dimostrazione.

Nel 1992, si teneva a Rio de Janeiro il primo vertice mondiale sull'ambiente in cui si fondava una nuova e feconda alleanza, quella tra i popoli indigeni e il movimento ambientalista occidentale. Gli accordi di Rio spingevano il governo brasiliano a regolarizzare alcune importanti terre indigene, come quella degli indios Yanomami, che era stata quasi totalmente devastata dall'invasione di circa 50.000 cercatori d'oro.

Amazzonia, infine, significa anche terra. Una terra povera, che solo il sudore e la cura dei piccoli agricoltori può rendere fertile. Questi sono attratti in Amazzonia dagli angoli più disparati del Brasile, nella speranza di trovare un pezzo di terra coltivabile che gli è negato in altre aree del Paese. Ma anche qui, ormai, trovano solo pascoli e terreni adibiti a monocolture: soia, riso, mais.

Sembra che persino in Amazzonia non ci sia terra per loro. Per questo i senza terra si organizzano, si muniscono di falci, vanghe e zappe e, in qualche caso, anche di armi da fuoco, e occupano latifondi improduttivi in mano ai todos poderosos (potenti) brasiliani e stranieri. Finché il governo brasiliano non varerà la riforma agraria, migliaia di famiglie brasiliane senza terra saranno costrette a conquistare con la forza e a proprio rischio e pericolo, quello che gli spetta di diritto: lo spazio vitale per sopravvivere.

Qualcuno certamente si chiederà come mai in un festival dedicato al cinema ambientale, piuttosto che mostrare la ricca biodiversità della foresta amazzonica – piante carnivore, foglie giganti, ragni, insetti, rane velenose, ecc. – abbiamo scelto di parlare di popoli indigeni, raccoglitori di caucciù e contadini senza terra.

Troppo spesso, a nostro parere, si parla dell'Uomo e della Natura quasi fossero di due realtà distinte e separate, con interessi contrapposti e inconciliabili: da una parte il Progresso e l'Economia, dall'altra l'Ambiente.

Eppure sappiamo che questa scissione tra Uomo e Natura è anch'essa frutto di un'operazione culturale, che l'uomo ha realizzato in un momento ben preciso del suo percorso evolutivo, cioè quando ha deciso, nel medioevo, di considerare la natura come un'entità ostile da soggiogare e poi, al tempo della rivoluzione industriale, come una realtà inerte su cui imporre il proprio dominio attraverso la macchina.

Ma i popoli indigeni e i popoli tradizionali dell'Amazzonia, come di altri luoghi del pianeta ci dimostrano esattamente il contrario: che non c'è soluzione di continuità tra l'uomo e l'ambiente, che ciò che si fa nel rispetto dell'uno si rivela un vantaggio anche per l'altro, che ciò che trasforma l'uno, muta anche l'altro. Che non si può avere cura dell'uomo se non c'è contemporaneamente considerazione e rispetto per l'ambiente.

La cosmovisione espressa dai popoli indigeni dell'Amazzonia anche attraverso il video ci permette di capovolgere il nostro punto di vista antropocentrico e banalizzante, in base al quale l'universo non sarebbe altro che l'estensione del mondo conosciuto, in favore di una concezione originale e polifonica in cui il mondo conosciuto ripete piuttosto la struttura dell'universo, dove ogni essere ha pari dignità, dal più piccolo insetto all'uomo.

Aree geografiche e popolazioni

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