Rabi

Diretto da

Un fabbro cade dalla bicicletta nel tentativo di evitare una tartaruga che porta al figlio dodicenne Raabi. La presenza dell'animale colpisce la sua immaginazione e quella di tutta la famiglia. Un bambino, una tartaruga, una storia, delle immagini e delle emozioni, per introdurre un tema ambientale.

Genere
Finzione
Paese
Burkina Faso, Francia
Anno
1992
Durata
54'
Casa di produzione
Cinecom Productions Ouagadougou, Atriascop
Lingue
Mooré
Approfondimento

A proposito di Rabi

Il cinema sulla terra. Immagini dall’Africa fra tradizione e globalizzazione di Maria Coletti e Silvia Zaccaria

Et la voix prononce que l’Europe nous a pendant des siècles gavés de mensonges et gonflés de pestilences,

car il n’est point vrai que l’œuvre de l’homme est finie

que nous n’avons rien à faire au monde

que nous parasitons le monde

qu’il suffit que nous nous mettions au pas du monde 

[...]

et aucune race ne possède le monopole de la beauté, de l’intelligence, de la force

et il est place pour tous au rendez-vous de la conquête et nous savons maintenant que le soleil tourne autour de notre terre éclairant la parcelle qu’a fixée notre volonté seule et que toute étoile chute de ciel en terre à notre commandement sans limite.

Aimé Césaire, Cahier d'un retour au pays natal

Guerre, devastazione, carestie, AIDS corruzione, ma anche arte, cinema e impegno ambientale.

Questa l'Africa di oggi. Cambiarne le sorti è possibile solo se l'Occidente decide di volgere lo sguardo alle sue energie più positive e vitali e al contributo che le società africane danno alla costruzione di un mondo più giusto e sostenibile.

Non è un caso che l'Africa sia il continente dove la sensibilità ambientale sta conoscendo la sua crescita più significativa, non solo per lo sviluppo di politiche e linee guida a livello nazionale sostenute dai programmi delle Nazioni Unite, ma soprattutto per il fiorire di organizzazioni non governative ambientaliste e di movimenti di base a livello locale, quali il Green Belt Movement, la cui ideatrice, l'ecologista keniota Wangari Maathai, la prima donna africana ad essere stata insignita del Premio Nobel per la Pace, ha dimostrato che non può esserci pace senza giustizia ambientale, ovvero senza la garanzia dell'accesso equo alle risorse della terra per tutti i popoli che la abitano.

I tragici avvenimenti politici e gli sconvolgimenti naturali che hanno segnato l'ordine mondiale negli ultimi due decenni, rovesciando sul sistema mediatico una valanga di immagini di guerre, attentati, genocidi, squilibri e catastrofi ambientali, hanno reso sempre più urgente la necessità di un ripensamento di tutto il sistema economico mondiale, come rivendicato dai movimenti “no global”, o meglio "new global”. In realtà, il surplus mediatico di informazione non si è trasformato, come avrebbe dovuto, in una reale crescita di consapevolezza e di impegno politico e sociale da parte degli Stati, svuotando così di senso quelle immagini, rendendole uguali come peso ai tanti reality show che riempiono i palinsesti televisivi di tutto il mondo. A questo punto è ormai evidente come la riflessione economico-politica non possa essere disgiunta, in questo contesto da una riflessione sul media e sulla comunicazione: l’idea tanto semplice da divenire quasi banale di "pensare globalmente, agire localmente" è infatti perfettamente applicabile al campo delle immagini audiovisive, dalla televisione al documentari, fino al cinema.

Anche la "settima arte” non può chiamarsi fuori dai cambiamenti epocali che stanno mutando la fisionomia e la "filosofia" della vita umana se già negli anni Sessanta, con le nouvelles vagues in Europa e nel cosiddetto terzo mondo si era avviata una riflessione sul mezzo cinematografico che puntava al superamento di una visione eurocentrica, questo è tanto piú vero all'inizio del terzo millennio. Confrontarsi con altre immagini, con altri modi di guardare e di raccontare il mondo, è un imperativo a maggior ragione se parliamo di cinema africano.

Il cinema dell'Africa subsahariana, in particolare, iniziato a ridosso della liberazione dal colonialismo, è nato proprio sotto il segno di una commistione tra documentario e finzione, seguendo un filo rosso che da sempre nelle tradizioni locali come nell'arte e nella cultura africane, lega l'uomo all'ambiente che lo circonda, alla comunità umana, sociale e naturale in cui vive. Dalle prime immagini del senegalese Ousmane Sembene, che hanno imposto nei festival internazionali “il padre del cinema africano”, alle opere delle rare e combattive cineaste come Safi Faye e Fanta Régina Nacro, dalla visionarietà poetica e innovativa di Djibril Diop Mambety e Souleymane Cissé, all'impegno sociale e all'arte del racconto di Gaston Kaboré e idrissa Ouédraogo, fino alla scrittura densa e fortemente autoriflessiva di nuovi autori come Abderrahmane Sissako e Mahamat Saleh Haroun: tutti questi film ci aiutano a guardare al continente africano, e insieme all'arte cinematografica, in modo nuovo.

Da qui la scelta di CinemAmbiente [CinemAmbiente 2005], che quest'anno si svolge in contemporanea con il terzo incontro mondiale sull'Educazione Ambientale (WEEC World Environmental Education Congress), di dedicare una sessione speciale all'Africa, ospite d'onore dello stesso incontro, e alle sue molteplici produzioni cinematografiche, poco visibili in Europa e nel mondo ma capaci di offrire al pubblico una visione dall'interno dei drammatici eventi che ne hanno sconvolto il paesaggio – naturale e umano – ma anche delle trasformazioni e delle speranze di un continente quotidianamente in costruzione. Una sessione che sarà riproposta a Roma, in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale e l'Associazione Culturale Yeelen, presso il Cinema Trevi, la sala della Cineteca Nazionale, dando l'occasione anche al pubblico romano di scoprire film e documentari africani e sull'Africa. 

Sebbene non si possa rintracciare un filone di "cinema ambientalista" in senso stretto, è infatti innegabile una diffusa tendenza "ecologista" nel cinema africano, rintracciabile nelle tematiche, come nel linguaggio utilizzato, capace di uno sguardo fluido e non intrusivo sull'ambiente: dalla denuncia fanta-ecologista del cortometraggio somalo Aleel – La conchiglia (1992), alla ricerca estetica di Flora Gomes, che in Po di sangui (1996) ambienta in un villaggio della Guinea Bissau un racconto a cavallo fra tradizione e modernità; dal diario poetico di un "ritorno al paese natale" alla vigilia del 2000 del regista mauritano Abderrahmane Sissako ne La Vie sur terre (1998), fino all'originale riflessione di Bassek Ba Kobhio e Didier Ouénangaré sul razzismo nei confronti dei pigmei della foresta equatoriale e della loro irriducibile e orgogliosa identità culturale, offerta nel film Le Silence de la forêt (2003). Per non parlare dei documentari più recenti che, partendo dall'analisi approfondita di alcuni "casi" particolari, ci illuminano in maniera esemplare su una tendenza purtroppo generalizzabile: lo sfruttamento insensato dell'ambiente e dell'uomo, a tutto vantaggio delle grandi multinazionali. Dal commercio ittico e delle armi sul Lago Vittoria (Darwin's Nightmare, 2004) ai ragazzi di strada di Nairobi (Pinocchio nero, 2005), dal problema delle mine antiuomo (Acampamento de desminagem, 2005) alle miniere di uranio abbandonate (Arlit, deuxième Paris, 2005): queste storie ci mostrano che non è mai troppo tardi per cambiare rotta, che forse è ancora possibile immaginare un mondo, e un cinema, diversi.

Sicuramente ci auguriamo che questa sia, per il pubblico, un'occasione per scoprire e riscoprire autori e opere degni di attenzione, ma anche per aprire uno sguardo a 360 gradi sul mondo e sul cinema che ci circonda, sulla realtà e sulle mille maniere di guardarla e di raccontarla, uscendo da quella prospettiva sterilmente eurocentrica che tanti danni ha fatto, e continua a fare, sull'ambiente, sulla cultura e sul cinema.

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