Du côté de la Côte

Diretto da

Una visita turistica in Costa Azzurra, nella quale esplodono colori e luci quasi surreali, è anche il pretesto per gettare uno sguardo ironico sulla macchina vacanziera e per evocare una dimensione mitica del paesaggio da eden del Sud della Francia.

«Du côté de la Côte è un film splendido. É France Roche moltiplicata per Chateaubriand (quello delle "Impressions d'Italie"), per Delacroix (quello dei "Croquis africains"), per M.me de Staël (quella di "De l'Allemagne"), per Proust (quello di "Pastiches e Mélanges"), per Aragon (quello di "Anicet ou le panorama"), per Giraudoux (quello di "La France sentimentale") e ne dimentico altri. Ma non dimenticherò mai la meravigliosa panoramica andata e ritorno che segue un ramo d'albero contorto sulla sabbia per arrivare alle scarpe di tela rosse e blu di Adamo ed Eva». (Jean-Luc Godard).

Titolo tradotto
[Dalla parte della costa]
Genere
Documentario
Paese
Francia
Anno
1958
Durata
28'
Casa di produzione
Argos Film
Lingue
Francese
Approfondimento

A proposito di Du côté de la Côte

Verità della finzione. Alle radici del cinema diretto di Jacopo Chessa e Alessandro Giorgio

Ripercorrere oggi, pur nell'esiguità di questa retrospettiva rispetto a una produzione vastissima e ancora poco scandagliata, la strada del documentarismo francese tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ha un significato con diverse, importanti articolazioni. Il cinema documentario della fine degli anni Cinquanta è in Francia ricco quanto numerose sono le istanze di rinnovamento che cominciano a farsi sentire e a pesare sull'equilibrio dell'intera sua cinematografia. Se la Francia non ha conosciuto nell'immediato dopoguerra una fase di radicale trasformazione delle modalità produttive e dell'estetica del film a soggetto come è avvenuto nell'italia neorealista, è pur vero che la vitalità che l'ambiente del documentario dimostra dall'inizio degli anni Cinquanta non tarderà a riflettersi sulla produzione dei film di finzione. Il Gruppo dei Trenta, prima di tutto, nel quale “militavano” Marker e Resnais, ma anche i più anziani Rouquier e Ichac, è il sintomo della necessità di diffusione del documentario attraverso canali che all'epoca erano ancora accessibili, come le sale di prima visione. Si tratta di un anomalo raggruppamento di registi, critici e produttori, senza un manifesto estetico e senza alcun apparente punto di contatto che si forma nel 1953 con il fine di fare pressione sul governo per ottenere nuovi interventi legislativi a favore della produzione e della distribuzione del cortometraggio documentario. Se di certo non si può considerare il Gruppo dei Trenta un precursore della Nouvelle Vague – non foss'altro perché i redattori dei Cahiers ne erano completamente al di fuori – non si può non constatare che alcuni dei più interessanti nomi del cinema francese degli anni Sessanta, più o meno evidentemente ascrivibili alla Vague, provengono dal Gruppo dei Trenta: i già citati Chris Marker e Alain Resnais, ma anche Agnès Varda, Jacques Demy e Pierre Kast, oltre a uno dei più importanti produttori del movimento, Pierre Braunberger. Il documentario è dunque per molti un'importante fase di avvicinamento al lungometraggio a soggetto, ma non per questo un cimento di minore importanza, spesso giá "autoriale” in un senso pienamente maturo, mentre per altri è contestualmente, per lucida e determinata poetica, il punto di partenza e di arrivo della propria ricerca. Si può anzi dire soltanto a posteriori e a ragione, che le “prove” documentaristiche di un Alain Resnais preparano la strada a Hiroshima, mon amour, perché la ricerca estetica dell'autore di Les statues meurent aussi e Nuit et brouillard aveva già raggiunto una sua compiutezza esemplare. Al contrario cioè di vane tesi “evoluzioniste”, c'è semmai una solida continuità tra la sua produzione documentaristica e quella di finzione, oltre che un efficace scambio reciproco. La stessa continuità che ritroviamo nel cinema di Agnès Varda, che esordisce nel 1954 con un lungometraggio che è uno degli esempi più limpidi di punto di incontro tra documentario e cinema di finzione, La pointe courte, e che proseguirà la sua carriera con piccoli gioielli come L'opéra mouffe e Du côté de la Côte, entrambi del 1958, acute indagini sul territorio urbano e marino, sugli oggetti come depositari di una verità segreta e sul colore, elemento poetico esplosivo. E anche un regista come Jacques Demy, noto più per le commedie musicali che per un'indagine sul presente condotta con i mezzi più tradizionali del realismo, proviene dal documentario, la cui prima prova è Le sabotier du Val de Loire in Val de Loire del 1955, in cui troviamo mescolate necessità autobiografica e sensibilità verso un reale inconsueto, antico e immutato nel tempo. Ritornare sul luogo dell'infanzia per documentare il lavoro di un anziano zoccolato è anche un ritornare sulla prima, purtroppo andata perduta, prova cinematografica dell'autore, che a soli sedici anni giró su questo tema un corto in 9.5 mm. Incontriamo infine l'opera di Chris Marker, un vero e proprio unicum nella storia del cinema, documentario e non. Purtroppo è oggi impossibile vedere – quantomeno su grande schermo – i suoi primissimi film, come Dimanche à Pekin e Lettre de Sibérie, che egli stesso non vuole più mostrare. Le joli mai resta però una pietra miliare del cinema d'inchiesta, un vero e proprio spaccato della società francese alla fine della guerra d'Algeria. Un'opera complessa, firmata anche dall'operatore Pierre Lhomme, che ha nel rapporto con gli intervistati il suo fulcro, il sua motivo conduttore destabilizzante. Di Marker, fortunatamente ancora attivo, abbiamo anche il piacere di ospitare in un'altra sezione del festival il suo ultimo documentario Chats perchés (2004) che nella più assoluta semplicità di una videocamera a mano a spasso per Parigi e qualche piccolo pretesto, dimostra quanto il cineasta abbia ancora da dirci sulla Francia dei nostri giorni

Un altro motivo di interesse verso il documentario francese dell'epoca è dato dal rinnovamento tecnico che lo investe, unito a straordinarie discussioni, che contribuirà a un mutamento complessivo del modo di rappresentare la realtà e, più alla lunga, ma non meno direttamente, alla nascita di una nuova estetiche nel cinema di finzione, nella Nouvelle Vague in particolare. L'introduzione di macchine da presa leggere e, soprattutto, dei registratori portatili Nagra per la presa diretta del suono, sono infatti alla base di quello che all'inizio degli anni Sessanta prenderà il discusso nome di cinéma vérité e, successivamente, di cinema diretto, del quale sono già in nuce molti elementi nel cinema di Rouch della seconda metà degli anni Cinquanta. Su questo argomento è importante ricordare quanto pesi la diffusione della televisione, che ancora si serviva di riprese in pellicola, e che cercava prima di tutto di snellire la troupe accantonando i problemi estetici che chiama in causa l'immagine filmata. È in atto un cambiamento che non tocca soltanto la Francia, ma che ha nel Canada francofono – che intrattiene numerosi e proficui scambi con l'antica madrepatria – e negli Stati Uniti gli altri principali poli di diffusione, ai quali ci piacerebbe dedicare la nostra attenzione nelle prossime edizioni del Festival. La necessità di una mobilità maggiore della troupe e di una fedeltà sonora alla realtà – quest'ultimo problema riguarda in particolare le inchieste e le interviste – è sentita soprattutto nell'ambito del documentario antropologico, in particolare da Rouch, e sociologico, nei quali diventa essenziale l'agilità dell'operatore nel seguire i soggetti filmati e nell'introdursi in spazi spesso angusti. Rouch stesso interviene sulla messa a punto delle cineprese con suggerimenti tecnici all'ingegnere André Coutant, inventore del leggero e maneggevole Cameflex, disponibile sia per 35mm e sia per 16mm. E con questa macchina che viene girato nel 1960 Chronique d'un été, dello stesso Rouch e di Edgar Morin, manifesto del nuovo cinema documentario non solo dal punto di vista tecnico. Chronique d'un été è infatti un nuovo modo di concepire l'inchiesta, partendo da una domanda, apocalittica e in un certo senso pretestuosa – Comment vis-tu? – per arrivare a un'indagine profonda sulla società francese in quel delicato momento di cambiamento che fu la nascita della V Repubblica, introducendo elementi di critica interna allo stesso tessuto dell'opera, come la discussione fra gli autori sul presunto esito del film e fra i protagonisti dell'inchiesta al quali viene mostrato il montaggio definitivo. Il cinema di jean Rouch è il cuore di questa retrospettiva come del documentarismo del periodo, proprio perché è il perfetto tramite tra un nuovo modo di concepire il documentario e il cinema di finzione. In questo senso, Rouch è uno dei più importanti artefici di un nuovo sguardo, da un lato determinato da esigenze tecniche, dall'altro sintomo di una nuova posizione nei confronti della realtà. L'influenza di Rouch sulla Nouvelle Vague è evidente e affermata apertamente, primo fra tutti da Godard, che dichiarò di avere girato, con À bout de souffle, la versione parigina di Moi, un noir, Moi, un blanc. Il cinema di Rouch è pienamente moderno, nella misura in cui stabilisce nuove regole nella definizione del concetto di finzione e di quello di realtà, e si presenta come la messa in scena di un film e del lavoro che sta dietro a esso. Gli stessi suoi film che sono passati alla storia come “di finzione” La pyramide humaine (1959-61) su tutti, contengono elementi e aspirazioni documentari, così come i film più propriamente "documentari" presentano una struttura condizionata e animata da una vera e propria messa in scena. Per certi versi il metodo di Rouch è pienamente, e dichiaratamente, psicodrammatico, come in Les veuves de quinze ans (1964), e si configura come una reinterpretazione da parte dei personaggi del proprio ruolo nella società. La produzione di Rouch tra gli anni Cinquanta e Sessanta segna un punto di non ritorno per la ridefinizione del rapporto tra il cinema documentario e il reale. Potremmo sintetizzarne la portata in accordo pieno con Deleuze che ha correttamente visto tanta più realtà proprio laddove l'artefatto si fa più radicale. La magnificenza in Rouch è anche nella brutalità del metodo e dei soggetti, la capacità assolutamente unica di fare un cinema quasi senza contesto, autoriflessività di un luogo e di un tempo che appartiene alla storia del cinema di un anomalo etnografo. Al punto che possiamo quasi credere che l'Edward G. Robinson disoccupato a Hollywood è un buon imitatore di Oumarou Ganda. Rouch pone ancora oggi grossi problemi, lo stesso Daney ne è stato tormentato, tra contraddizioni e lampi del suo noto e grazioso genio: «Egli non crede alla storia, agli apparati, sa soltanto – esteta anarchico – che, piu o meno, il tempo lineare si fende e ospita un momento irrequieto e violento di libertà disordinata e anti-autoritaria, e che di questo bisogna conservare la traccia e il ricordo, tessere i fili che, da qualche parte nel mondo e in disprezzo delle frontiere, formano la trama di una "internazionale" ludica e parassitaria». Accanto a Rouch, trova spazio uno dei protagonisti del nuovo documentario di quegli anni, Mario Ruspoli, italiano, ma francese d'adozione. È lui a coniare l'espressione cinema diretto, in sostituzione del contestato e impreciso cinéma vérité. Grande sperimentatore tecnico, si avvale della collaborazione di Michel Brault, operatore e regista, figura di spicco dell'Office National du Film di Montréal. Attraverso il cinema di Ruspoli dei primi anni Sessanta si può oggi avere un'immagine complessa della dimensione rurale in piena fase di industrializzazione e di spopolamento delle campagne (Les inconnus de la terre), e spingersi dentro un ospedale psichiatrico con una delle prime troupe con il sonoro in presa diretta (Regards sur la folie).

Questi documentari non rappresentano una scuola o uno stile, ma in modi diversi patiscono un clima storico-politico che, a partire dalla guerra d'Algeria, ha forzato tanti cineasti a elaborare e teorizzare metodologie e tecniche alternative. Il ruolo avuto da questi lavori nella riflessione sulla rappresentazione del reale nei grandi film degli anni Sessanta dei giovani turchi è forse stato in parte sottovalutato, nel senso che la giusta paternità di Renoir e Rossellini, degli Hitchcockhawksiani, ecc., ha in parte offuscato nei libri di storia (ma non nelle memorie dei cineasti) il ruolo di molte di queste opere.

Diverse forme di documentarismo, quindi, come diversi sono i temi che esso tratta e le modalità di rappresentazione che attiva. Abbiamo cercato di fornire una piccola panoramica di un arco produttivo di una decina d'anni circa, privilegiando gli autori maggiori e cercando di ricoprire le principali categorie di documentario, tenendo sempre presente il rapporto che esso instaura con il cinema di finzione. Non a caso abbiamo accluso all'elenco del film Paris vu par…, film di finzione a tutti gli effetti, in cui si succedono episodi descrittivi di vari quartieri parigini, piccole storie sviluppate con gli essenziali mezzi del cinema diretto.

Progetto Food on Film
Food on Film
Partners
Slow Food
Associazione Cinemambiente
Cezam
Innsbruck nature film festival
mobilEvent
In collaborazione con
Interfilm
UNISG - University of Gastronomic Sciences

Funded by the European Union. Views and opinions expressed are however those of the author(s) only and do not necessarily reflect those of the European Union or the Creative Europe Media Program. Neither the European Union nor the granting authority can be held responsible for them.