Departure of the British Antartic Expedition from Lyttleton, New Zealand 1st January 1908
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A proposito di Departure of the British Antartic Expedition from Lyttleton, New Zealand 1st January 1908
«Nelle spedizioni antartiche l'uso delle riprese cinematografiche non è un fatto occasionale e la qualità degli operatori contribuisce in modo determinante a quel capitolo della storia del cinema che è la nascita del documentario. La prima documentazione cinematografica certa e il primo resoconto scritto dell'impiego di cineprese in Antartide risalgono alla spedizione inglese di E. H. Shackleton, partita con le navi Nimrod e Koonya nell'agosto del 1907 e rientrata nel marzo 1909, dopo aver raggiunto il Polo magnetico ed essersi avvicinata ad appena cento miglia dalla meta del Polo Sud. Già in quella circostanza l'obiettivo delle riprese cinematografiche appare ben definito [...] La motivazione è duplice, da una parte l'intento naturalistico, come richiedeva il mondo scientifico e il crescente interesse del pubblico inglese svezzato dai grandi produttori dei primi documentari, dall'altra parte la volontà di descrivere con la maggior fedeltà possibile l'eccezionalità dell'evento, tra documento e celebrazione. In concreto ciò che si è conservato non è molto, si tratta di un montaggio cronologico di una serie di spezzoni girati dall'operatore James McDonald sulla partenza della spedizione [...] Le riprese, intercalate da didascalie esplicative, descrivono con inquadrature fisse e qualche rara panoramica la piazza centrale di Lyttleton, il porto con la nave Nimrod, sulla quale vengono imbarcati i ponies e i cani della spedizione. Dalla nota di allegria e di vitalità introdotta con le scene degli animali, si passa al momento dell'ufficialità con la visita e l'ispezione a bordo del comandante [...] È poi la volta del commiato, prima il saluto caloroso della folla assiepata sulla banchina al momento della partenza delle navi, quindi la spettacolare esplosione di due mine al largo della costa di Lyttleton; le ultime immagini sono dedicate, da diversi punti di vista, alle due navi che procedono nella loro navigazione verso l'Antartide, inizialmente scortate da altre imbarcazioni e poi solitarie, mentre si allontanano nel mare aperto. Questo cortometraggio sulle partenza delle navi da Lyttleton non è stato realizzato dagli uomini di Shackleton, ma rivela come la ripresa cinematografica diventi parte essenziale di un evento straordinario, quale mezzo ideale di documentazione e celebrazione. Da questo momento infatti, tutte le più importanti spedizioni troveranno alla partenza e all'arrivo, oltre ai giornalisti e ai fotografi, i più zelanti operatori. Il film originale della spedizione aveva invece, per l'epoca, una durata eccezionale: circa 1000 metri di pellicola per un'ora di proiezione, e noi abbiamo notizia che fu proprio questo reportage a contribuire in modo determinante (insieme al film Sul tetto del mondo di Vittorio Sella, sulla spedizione himalayana del Duca degli Abruzzi), all’introduzione nei cinematografi italiani del lungometraggio». (Andrea Balzola, "Prime visioni d'Antartide - La nascita del documentario e il cinema delle spedizioni al Polo Sud", in L'avventura Antartica – Immagini e storia, Cahier n. 75 Museo Nazionale della Montagna "Duca degli Abruzzi" -CAI-Torino, Torino 1990, pp. 69-70)
Note di viaggio [Cinemambiente 1998]
Gute Reisende sind herzlos
I buoni viaggiatori sono senza cuore
Elias Canetti
Dai travelogues degli Hale's Tours ai reportage su grandi imprese e terre esotiche, dal road movie alle mille storie inventate e non di spazi conquistati e identità perdute o ritrovate, il tema del viaggio ha accompagnato l'intera storia del cinema, in tutti i suoi generi e ambiti di produzione, metafora stessa del nuovo mezzo in grado di restituire il movimento del mondo.
Il breve percorso qui proposto consente di osservare alcune zone di questo prolifico rapporto tra la macchina da presa e l'ambiente costituito dal film di viaggio. Si tratta di opere e materiali che riguardano dimensioni diverse del viaggiare – alcune probabilmente definitivamente scomparse – in cui costante però è l'esercizio di uno sguardo su una realtà, un luogo, una cultura, un "altrove" raggiunto attraverso un movimento fisico. La conquista coloniale, l'esplorazione, la scoperta scientifica, la vacanza familiare, ma anche il rito e la ricerca interiore, sono i passaggi principali di questa ricognizione, che rivela innanzitutto l'importanza della possibilità di creare immagini, che documentano ma rappresentano anche un fattore determinante che modella lo stesso viaggio.
Le componenti di violenza e imposizione culturale dei viaggi di conquista occidentali nei primi decenni del secolo sono ad esempio mostrate nel lavoro di recupero e rielaborazione di materiali originari svolto da Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, che con la sola forza delle immagini riescono a costruire un lucido discorso sul ruolo della macchina da presa come espressione di una volontà di appropriazione e dominio. È lo stesso sguardo colonialista analizzato da Peter Kubelka nel suo viaggio africano negli anni Sessanta, al seguito di un gruppo di bianchi impegnati in un safari.
La fiducia nel cinema come possibilità di registrare il reale, di testimoniare eventi naturali e imprese umane appare evidente nei lavori del vulcanologo Haroun Tazieff, che riprende scenari apocalittici e spettacolari eruzioni, o nella cospicua documentazione lasciata da Alberto Maria De Agostini durante le sue peregrinazioni nella Terra del Fuoco e in Patagonia, o ancora nelle immagini delle prime spedizioni alpinistiche sulle grandi vette, non scevre in alcuni casi di implicazioni politiche, come il documento sull'ascensione al Nanga Parbat nel 1938, che diventa un esempio di propaganda nazista. L'esplorazione dell'ambiente in quanto sfida umana, terreno di confronto con la forza e talvolta l'ostilità della natura, è ancora visibile nelle prime documentazioni filmate sulle spedizioni antartiche, in cui la vocazione narrativa e spettacolare del cinema fa capolino anche là dove si presumerebbe la totale aderenza alla materia realistica.
Ciò che appare subito chiaro in questo capitolo della storia dei viaggi, è che non c'è meta davvero raggiunta e spazio conquistato, se non opportunamente documentati, non c'è spedizione e impresa che possa rinunciare ad essere filmata e a dare così il proprio contributo alla costruzione di un immaginario fatto di eroi e grandi avventure, di spazi immensi reali e ignoti. Immerse nel silenzio della loro innocenza, e nella seduzione della loro genesi – possibile in molti casi nonostante difficili condizioni ambientali e grazie ad azioni ardite – tali immagini incantano oggi come allora. La traversata di un ultimo veliero filmata da Henrich Hauser, in cui non vengono mostrati né luoghi di partenza né punti di arrivo, diventa l'emblema dell'esperienza in sé del movimento, un inno al senso più profondo del viaggiare. Di cui vanno anche raccolti gli scarti rispetto agli esiti desiderati, i fallimenti, le rinunce, le tragedie o semplicemente l'impossibilità di creare l'immagine anelata (la vetta come il ritorno). Ma il fascino del viaggio in terre lontane ed estreme può diventare anche esplicito strumento pubblicitario, come avvenne per le crociere africane e asiatiche organizzate dalla Citroën tra gli anni Venti e Trenta, in cui impresa umana e immagine prodotta risultano totalmente inscindibili.
Altro tipo di rapporto con l'ambiente è quello rintracciabile negli home movie girati durante vacanze familiari: Gustav Deutsch rilegge anonimi materiali degli anni Cinquanta e Sessanta, proponendo un interessante catalogo sullo sguardo amatoriale nel suo tentativo di catturare luoghi – in questo caso quelli deputati al turismo – e conservare ricordi.
Il viaggio come incontro con mondi e culture "altre", avvicinamento e scoperta di se stessi, è il tema infine di alcune opere in cui il dialogo con l'ambiente è costruito sulla base della consapevolezza che il movimento non è prerogativa di chi ha in mano la cinepresa. La documentazione di Ulrike Koch sulla migrazione dei pastori nomadi tibetani verso i grandi laghi salati dell'altopiano dell'Himalaya, omaggio ad una dimensione sacrale del viaggio, la contemplazione di paesaggi naturali e presenze animali di Bill Viola, le riflessioni di Chris Marker a partire dai "due poli estremi della sopravvivenza" – il Giappone e l'Africa – o ancora lo sguardo incrociato proposto in un altro lavoro di Deutsch (che accosta le sue immagini di austriaco in Marocco a quelle di un marocchino in Austria), suggeriscono modalità del viaggiare basate sul dialogo, il confronto, la meditazione: osservare il movimento della natura e di chi la abita, con rispetto ed esitazione, conduce ad un movimento di coscienza, ad una produzione di pensiero, ad una attivazione di memorie. Il rapporto con un luogo non si instaura più attraverso l'appropriazione topografica e culturale, ma attraverso una valorizzazione delle differenze, il mantenimento di una soggettività e una comprensione storica. Il viaggio come scoperta e avventura appartiene forse solo più alla mitologia e alla nostalgia, così come le stesse condizioni di produzione e consumo di immagini risultano profondamente trasformate rispetto alle epoche qui evocate. Le potenzialità conoscitive del viaggio, e quindi delle immagini mutuate da esso, vengono allora affidate, più che ad un movimento nello spazio guidato da uno sguardo allupato in cerca del puro e dell'incontaminato, ad una capacità di stare in un qualsiasi luogo differente, di lasciar parlare e assorbire questa alterità, rintracciandone anche le motivazioni storiche e accogliendo la dimensione del ricordo che quel luogo può sprigionare in chi prova ad avvicinarlo.
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